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Pappagalli
Verdi - Libro su IBS
Le cronache di un chirurgo di guerra,
fondatore di Emergency, l'associazione umanitaria italiana
per la cura e la riabilitazione delle vittime di guerra e
delle mine antiuomo. In questo libro, Strada mette a nudo
le immagini più vivide, talvolta i ricordi più
strazianti, le amarezze continue della sua esperienza di medico
militante, stretto continuamente tra le politiche ufficiali
dell'ONU e dei padroni della guerra e le pratiche del volontariato
internazionale. Prefazione di Moni Ovadia.
RECENSIONE AL LIBRO DI GINO STRADA, Pappagalli verdi
Notiziario Giugno 1999 - Amnesty International, Sezione Italiana
Intitolando in questo modo la recensione,
non abbiamo voluto giocare col cognome di Gino Strada. Piuttosto,
abbiamo voluto mettere in evidenza le condizioni in cui l’autore
e i suoi collaboratori si siano spesso trovati nel corso del
loro impegno: installare ospedali da campo in meno di una
giornata, organizzare soccorsi istantanei approfittando di
una fragile tregua, operare a lume di candela nel mezzo di
combattimenti, provare a ricucire corpi e anime, ad amputare
e rieducare, a convincere un bambino o una bambina a trascorrere
il resto della propria vita "adattandosi alla nuova forma
del suo corpo, a usare meglio quel che è rimasto".
Racconta Strada della sua sorpresa iniziale nel constatare
l’assenza di reazione da parte delle vittime e di aver
poi compreso come sia "la quotidianità della tragedia
che rende superfluo ai feriti dalle mine piangere, lamentarsi.
E’ il fatto di aver sempre vissuto in mezzo al terrore
e al dolore fisico, di averlo visto negli occhi dei nonni
e poi dei padri e delle madri, dei fratelli e delle sorelle
maggiori".
La "quotidianità della tragedia"
é questa: ogni venti minuti nel mondo una mina esplode
e i 50 o 100 grammi di tritolo che contiene vengono sparati
a incredibile velocità, ferendo, mutilando, uccidendo
esseri inermi che stanno camminando in un prato, portando
il gregge al pascolo, giocando nel cortile di casa, zappando
la terra. Due bambini raccolgono un pezzo di ferro e, contenti,
vanno al mercato dove forse potranno barattarlo con un tozzo
di pane: passando da una mano all’altro, quel pezzo
di ferro esplode.
Diceva Saddam Hussein nell’ottobre
1991, all’indomani del ritiro dalla regione kurda dell’Iraq:
"Noi ce ne siamo andati, ma il nostro esercito è
rimasto lì." E alludeva alle mine antipersona
(dieci milioni, tre per ogni abitante nel Kurdistan iracheno),
alla sua armata invisibile fatta di italianissime Valmara
69 e VS-50. Mine la cui produzione e il cui commercio sono
stati finalmente proibiti dalla legge 374 del 22 ottobre 1997,
approvata anche grazie a una campagna di pressione di Emergency,
l’organizzazione umanitaria fondata da Strada a Milano
nel 1994 e alla quale sono devoluti i diritti d’autore
di questo libro.
Accanto alle mine italiane, ecco il modello
PFM-1 di fabbricazione russa, i "pappagalli verdi".
In Afghanistan i sovietici ne lanciavano a migliaia dagli
elicotteri; grazie alle "ali" di cui erano dotate,
queste mine anziché cadere a grappolo in un unico punto
si disperdevano come volantini su un’ampia superficie.
I militari sovietici affermavano che quelle mine erano fatte
in quel modo per sole ragioni tecniche e non perché
dovessero assomigliare a un giocattolo. Cioè, precisavano
indignati i progettisti, non erano fatte apposta per attirare
i bambini. Però li attiravano. E i bambini se le portavano
a casa, se le scambiano come fossero figurine, finché
sulle "ali" veniva esercitata un po’ di pressione
e si verificava l’esplosione. Strategia di guerra: più
bambini muoiono o rimangono ciechi o monchi o sfigurati, più
la popolazione civile terrorizzata cesserà ogni resistenza.
A partire dalla metà del secolo, il 90% delle vittime
dei conflitti erano civili estranei ai combattimenti; in Afghanistan
il 34% di queste erano bambini.
Cosa è che ha portato Strada a essere
l’opposto di un barone universitario o di un chirurgo
dai guadagni miliardari? Certo, la passione per il lavoro
e la fortuna di essere pagato per fare ciò che piace
(in contesti, peraltro, allucinanti). Ma anche e soprattutto
quelle "idee di solidarietà, di consapevolezza
di essere in qualche modo in debito verso i più sventurati
della terra". Scrive Strada: "Molti di loro non
sopravvivono. Non riescono a sopportare il lungo viaggio sulle
montagne, a dorso di mulo, qualche volta stesi su un carretto.
Arrivano sporchi e sfiniti al nostro ospedale, con il turbante
e la barba pieni di terra, i vestiti stracciati e incrostati
di sangue. E’ giusto che ci sia qualcuno ad aspettarli,
è umano".
Se dovessimo scegliere alcuni dei momenti
essenziali di questo diario, prenderemmo quelli in cui Gino
Strada sfoga la sua indignazione e il suo disprezzo nei confronti
di coloro che dopo aver subito lutti e tormenti senza fine
ad opera del potere centrale o di una potenza occupante, non
appena "liberi" hanno iniziato a combattere tra
di loro. Strada si è trovato nel Kurdistan iracheno
e nella capitale afghana, Kabul, in momenti del genere. E,
resistendo alla tentazione di maledire tutti quanti e tornarsene
a Milano, ha cercato di ritagliare almeno per il proprio ospedale
una zona neutrale, in cui poter soccorrere i feriti di una
parte e dell’altra.
E a proposito di ospedali, concludiamo
ricordando che Strada ha lavorato anche al Koshevo di Sarajevo,
dove il dottor Karadzic era un l’insigne psichiatra.
Un giorno l’insigne psichiatra, i tecnici, gli infermieri
e i portantini della sua etnia non si presentano più
in ospedale. Una settimana dopo saranno tutti sulle colline
intorno a Sarajevo, a bombardare il loro reparto e i loro
stessi colleghi. |